Pagine

Brani in evidenza - Pannelli mostra

“Non ci sarebbe bisogno di un nuovo lavoro sulla crisi, che anche in Italia ha suscitato molte analisi e riflessioni critiche, se non fosse evidente che né il pensiero economico dominante né i governi hanno abbandonato i princìpi, le teorie e le azioni che avevano caratterizzato, per quasi un trentennio, il periodo precedente la crisi. Se qualche cambiamento nelle politiche è stato introdotto, esso è più figlio del pragmatismo che di un pensiero compiuto. Non è la prima volta che la storia economica mostra analoghe assenze di memoria, ma non mi sembra che di ciò si sia data una spiegazione. Keynes riteneva folle il ritorno al tallone aureo (l'emissione di moneta limitata dalle riserve auree) dopo la crisi successiva al primo dopoguerra, ma nemmeno lui ha spiegato perché quell'idea senza senso aveva continuato a ispirare le politiche economiche per molti anni. Anche oggi, superata la caduta iniziata nel 2007, ma non sconfitta definitivamente la crisi, i tanti che ne hanno scritto non hanno spiegato perché sia così difficile abbandonare le idee del passato, pur nell'evidenza del loro fallimento.In questo saggio mi avventuro su un terreno che è poco familiare per chi tratta di economia e offro troppo poche spiegazioni per chi non ha avuto una formazione in proposito, ma non uso un linguaggio formalizzato e spero di non aver commesso errori né omesso troppi passaggi logici. Il problema della comunicazione, però, nasce soprattutto perché propongo di spiegare la resistenza di un punto di vista ormai superato non attribuendola alla pigrizia del pensiero accademico, ma a una forma particolare di economia, consolidatasi in decenni, che riguarda i rapporti tra il capitalismo (meglio, i capitalisti) e lo Stato. Il capitalismo, infatti, è un modo di essere delle società che non si distrugge nelle crisi, ma evidentemente si trasforma e, una volta trasformato, dà luogo a una nuova cultura capitalistica e a nuovi rapporti tra i capitalisti e lo Stato e tra gli stessi capitalisti: interpreti, capitalisti e governi ritengono, però, che il vecchio capitalismo sia permanente, e che le crisi non siano altro che un temporaneo disallineamento tra gli elementi che lo compongono.”Prefazione, p. 11

“A parte gli economisti classici ( Smith , Ricardo , Marx ), non conosco un metodo capace di indagare sulla specifica natura di ogni trasformazione del capitalismo, nonostante gli innumerevoli modelli che cercano, dopo aver abbandonato i classici, di spiegare, mimandolo, il comportamento dell'economia e dei suoi soggetti. Perciò, sono costretto a descrivere le istituzioni economiche del capitalismo nelle due epoche che ho vissuto direttamente: la prima, successiva alle politiche del New Deal, e la seconda, che parte dalle riforme conservatrici del Primo Ministro Thatcher e del Presidente Reagan, tra il 1979 e il 1981, e finisce (?) con la crisi del 2007-08. È impressionante l'espansione planetaria della crescita economica nel capitalismo post-Reagan-Thatcher, quando la netta inferiorità dello Stato rispetto agli interessi dei capitalisti avrebbe dovuto impedirla, se la giudicassimo sulla base delle istituzioni rooseveltiane. Non si possono paragonare periodi storici diversi, ma il confronto fornisce indizi corposi sulle trasformazioni del capitalismo, stilizzandole fortemente e osservandone le evoluzioni. Nel farlo, ho dovuto anche riferirmi alle vicende economiche e ai principali cambiamenti istituzionali dei due periodi; mi auguro che questo saggio non sia giudicato sul metodo storico, ma sulla verosimiglianza dell'ipotesi generale: che ogni capitalismo genera dinamiche al proprio interno che lo trasformano in un capitalismo diverso dal precedente e che tale diversità si vede nel rapporto tra capitalisti e Stato e tra diversi capitalisti. Saranno anche evidenti le differenze tra il capitalismo americano e quello europeo.”
Introduzione, p.15

“E’ il velo d’ignoranza smithiano: l’individuo, <<perseguendo il proprio interesse, spesso persegue quello della società>>, ma <<generalmente… né intende promuovere l’interesse pubblico né sa di quanto lo stia promuovendo>>, altrimenti – diremmo noi – chiederebbe di esserne retribuito. Con questa frase, Smith inaugura l’economia politica ponendo l’interesse personale alla guida dello scambio, ma è sfuggito a molti che, per Smith, i partecipanti allo scambio non hanno cognizione (né s’interessano) degli effetti del loro scambio sugli altri partecipanti, sui non partecipanti e perciò sulla domanda effettiva e sull’economia nel suo complesso.
Del resto, è ovvio: non vi sarebbe egoismo se prevalesse l’interesse pubblico. Così, ciascuno persegue il proprio interesse, egoistico o altruistico, non persegue obiettivi economici collettivi, né si pone moralisticamente sul mercato, e Smith applica la scienza di Machiavelli all’economia”
Parte prima. L'ultima crisi del capitalismo – Scambio, distribuzione, accumulazione e il velo di Smith, p. 35  

“La verità è che, se la Storia è riprodotta come un ciclo tra squilibri ed equilibri che si rincorrono ogni volta, allora non è Storia, perché non racconta nulla d’importante. Invece, sono i cambiamenti, prima e dopo le crisi, oggi ben rappresentabili da due straordinariamente diverse strutture di economia, anzi di capitalismo – quello rooseveltiano e quello reaganiano – che sono interessanti, insieme alla loro stessa erosione e alla trasformazione della loro forma economica (e sociale). Questo mi è sembrato il passaggio necessario per distinguere l’analisi di modelli economici nel tempo ma non dinamici, compreso il modello del ciclo economico, dall’esame dell’economia capitalistica.”
Parte prima. L'ultima crisi del capitalismo - Equilibri, squilibri, cambiamenti e trasformazioni, p. 44                     

“Il capitalismo è fatto di individui o imprese non consapevoli degli effetti macroeconomici delle loro scelte; anche quando le loro scelte sono aggregabili e i loro effetti positivi, come nel caso delle crisi di offerta, questi effetti o sono controintuitivi o non colgono un interesse da parte del singolo individuo o della singola impresa. Invece, lo Stato può, se il sistema politico glielo permette, conoscere gli effetti macroeconomici delle proprie scelte e di quelle dei capitalisti; può sbagliare, ma possiede gli strumenti per correggersi. Così, lo Stato è sempre istituzione macroeconomica anche quando, influenzato da capitalisti anarchici, nega la sua stessa natura, e ritiene di essere un soggetto come tanti altri nella società: è l’istinto di sopravvivenza che gli impedisce di sparire, quando le circostanze presentassero questo pericolo. La subalternità dello Stato ai capitalisti, come un rapporto di mutua dipendenza, è possibile perché non dobbiamo dimenticare che lo Stato ha bisogno dei capitalisti, che concretamente producono benessere, reddito, utilità, attraverso le proprie imprese, mentre i capitalisti hanno bisogno almeno dello Stato minimo, per difendere la proprietà privata. Lo Stato non potrebbe sopravvivere se i capitalisti non provvedessero le basi della crescita del reddito (del benessere, dell’utilità, dello sviluppo della persona), attraverso l’aumento del prodotto per addetto – che è inevitabile fin dalla prima selce scheggiata, destinata a far risparmiare tempo e fatica: forse siamo in presenza degli <<spiriti animali>> di Keynes e Robinson, e il termine ha un’illustre ascendenza letteraria, ma è più un postulato che una spiegazione. D’altra parte, i capitalisti non potrebbero sopravvivere se l’aumento del prodotto per addetto non fosse accompagnato da un aumento della domanda di quel prodotto; in sua assenza, si creerebbe disoccupazione, crisi e fallimento degli stessi capitalisti. E’ lo Stato, separato dai capitalisti, l’istituzione che può evitare questo esito.”
Parte seconda. La cecità dei capitalisti - Il velo di Smith e lo Stato, p. 57-58

“Non serve a niente, a questo punto, affermare che gli squilibri creati dal nuovo capitalismo non potevano non generare una crisi di sistema: bisogna individuare le ragioni del crollo e, soprattutto, cercare di indagare le ragioni strutturali e reali, non semplicemente quelle finanziarie. E’ vero che un’economia del debito non può durare a lungo; ma quando dura a lungo, come nel nuovo capitalismo, non basta affermarne la debolezza inevitabile: non ci bastano Donn’Anna e Donna Elvira che, quando sprofonda Don Giovanni, cantano un ovvio, ma bellissimo concertato: <<Questo è il fin di chi fa mal>>.”
Parte terza. Le trasformazioni del capitalismo - Il declino del nuovo capitalismo p. 187

“È evidente l'assenza dello Stato nel processo di accumulazione: l'antitrust è inefficace, la banca centrale non vigila sulle imprese finanziarie, l'imposizione fiscale sul patrimonio è frenata dalla concorrenza sui capitali tra diverse economie, non c'è bisogno di politiche economiche per la domanda effettiva perché l'esplosione finanziaria ha effetti economici «reali», la nuova moneta endogena sostituisce la moneta esogena e riduce la sovranità degli Stati. L'enfasi sullo Stato minimo è soltanto l'orpello ideologico del nuovo capitalismo.
Il periodo successivo alla crisi del 1981, conseguente la nuova politica economica e monetaria, ma più chiaramente a partire dall'abbandono del cambio fluttuante nel 1987 e fino al crollo del 2007, è stato definito come la già ricordata «Grande Moderazione»: la crescita del prodotto nazionale nei Paesi industrializzati presenta oscillazioni meno marcate rispetto al periodo della Grande Inflazione, anche se negli anni dal secondo dopoguerra fino a metà degli anni Settanta le oscillazioni erano altrettanto poco marcate. La ridotta volatilità del prodotto nazionale è stata spiegata dal ridotto tasso di inflazione nel periodo, e dal ritiro dello Stato dalla politica economica, nonché dal miglioramento introdotto dalla rivoluzione informatica, che ha stabilizzato le politiche aziendali sul magazzino (operare in tempo reale ha ridotto notevolmente sia i volumi degli stock sia il loro ciclo). Ma, allora, le nuove politiche monetarie, che si fondano sull'intuizione di Friedman, per il quale la stabilità monetaria è funzione delle aspettative inflazionistiche degli operatori, sarebbero non solo efficaci per ridurre l'inflazione, ma anche efficienti perché tenderebbero a minimizzare il ciclo: ne deriverebbe che battere l'inflazione equivale a creare le condizioni per una crescita regolare del prodotto — un sogno sul quale si fonda lo statuto della Banca Centrale Europea. Peccato che in una lunga parte del periodo, la moneta pubblica, alla quale si riferisce il pensiero di Friedman, sia stata sostituita da una gigantesca emissione di moneta privata, e questa avrebbe ben potuto produrre inflazione, se non si fossero manifestate le straordinarie crescite dei Paesi emergenti, come già indicato: né la crescita della moneta endogena né lo sviluppo dei Paesi emergenti sono chiamati in causa per spiegare la Grande Moderazione. È, invece, il nuovo capitalismo che, spontaneamente, attraverso l'economia del «leverage» e l'accumulazione, produce una crescita stabile del prodotto mondiale, essenzialmente dominata dai Paesi emergenti. Questa interpretazione attende una conferma statistica; ma la fine della Grande Moderazione, non spiegabile né con le politiche delle banche centrali né con l'informatica, smentisce le interpretazioni tradizionali.”
Parte terza. Le trasformazioni del capitalismo - La Grande Moderazione, p. 182

“La globalizzazione non elimina le strutture pubbliche, può limitarne il raggio d'azione e renderle servizievoli nei confronti dei capitalisti; poiché lo Stato è struttura originaria, più del capitalismo, può cambiare forma ma non autodistruggersi. Sono molti i modi attraverso cui lo Stato protegge la propria esistenza, ma tutti devono assicurare una qualche capacità di osservazione sull'economia nel suo complesso. Ne segue che per quanto servizievole, lo Stato deve promuovere o accettare un compromesso con i capitalisti, soprattutto allo scopo di correggerne, anche solo temporaneamente o parzialmente, l'anarchia. Non è un evento frequente, ma un singolo Stato può perdere anche l'istinto di sopravvivenza: le unioni di Stati, le federazioni e le confederazioni, gli stessi trattati e accordi internazionali che regolano le sovranità, risultano dal deperimento di qualche formazione di Stato nazionale (feudale, confessionale, tirannico) precedente, ma restaurano sempre una forma di Stato. È anche vero che la pressione dei capitalisti verso lo Stato minimo, che spinge gli Stati a qualche forma di unione, non ne spegne l'ansia di esistere: un buon esempio è l'Unione Europea, che oscilla tra il desiderio di diventare una federazione e il mantenimento di singole sovranità nazionali, ma, pur finendo per esaltare la propria burocrazia e umiliare continuamente la sovranità del proprio parlamento, sopravvive. Meno estremo, ma pur sempre un indizio nella stessa direzione, è il maggior ruolo degli Stati negli Usa, rispetto al governo federale, dopo la Presidenza Reagan.
Nella globalizzazione, con governi che sono sempre tentati dal mercantilismo e con Stati che proteggono la propria esistenza, si materializza un conflitto tra Stati: in assenza di una qualsiasi egemonia planetaria, si oscillerebbe continuamente tra forme di violenza mercantilistica o autoritaria e accordi provvisori fondati sulla cultura liberista dei capitalisti finanziari. La «free trade area» dell'Atlantico è un esempio recente di questa oscillazione, considerando che la moneta di riserva resterebbe il dollaro; ma poiché nel passato mercantilismo e protezionismo hanno sempre trovato nuove vie per aggirare i trattati liberoscambisti, gli accordi regionali non sostituiscono un vero accordo internazionale su nuove basi.”
Parte quarta. Verso un capitalismo mercantilista - Lo Stato, p. 221-222

“Poiché lo Stato deve mantenere una capacità di riconoscere le crisi prima che si manifestino, allora deve dotarsi di politiche economiche volte a questo scopo. Esiste così un limite al suo possibile ridimensionamento, anche perché la sua stessa dimensione è lì a dimostrarlo. Inoltre, l’intervento pubblico deve poter correggere l’anarchia dei capitalisti anche nazionalizzando imprese e proprietà, ma fornendo nuova domanda ai capitalisti <<reali>>: non è in gioco la proprietà privata, ma solo la sua sacralità. Pur anarchici, i capitalisti <<reali>> non temono i propri simili nazionalizzati, se ciascuno di loro si troverà con maggiori profitti o rendite. Ogni nazionalizzazione, però, ostacola il motivo dell’accumulazione e la globalizzazione non apprezza affatto l’esproprio: ne segue che ogni azione dello Stato in questa direzione deve presentarsi come temporanea, altrimenti il flusso internazionale dei capitali si arresterà alle porte dello Stato espropriante e verrà a mancare l’adesione di tutti i capitalisti. Poiché spesso la temporaneità è solo formale, se le imprese nazionalizzate rimangono in vita, ne deriverà un rinnovato scontro tra governi e capitalisti finanziari, e tra questi e quelli <<reali>>.” 
Parte quarta. Verso un capitalismo mercantilista - La contraddizione dello Stato minimo, p.222

Nessun commento:

Posta un commento

Grazie per il tuo commento